Il rosone, il ballatoio, i lanternini  
   

Il disegno del grande rosone che campisce tutta l’ampiezza del fastigio ricalca quello originario risalente al 1294, dovuto probabilmente a Sozzo Rustichini, per quanto da alcuni studiosi è ritenuto risalire alla fine del Trecento. È caratterizzato da uno strombo insolitamente profondo, per il quale differisce dagli altri esemplari dello stesso secolo. Il rosone centrale scolpito reca al centro l'immagine del Redentore.

 

Le cornici del rosone sono originarie, e solo alcuni brevi tratti ne sono stati rifatti in occasione del restauro della facciata del 1816, allorché fu deciso di «riportarlo allo stato antico» (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio dei Fossi, n. 494, cc. 243-245, 1816 Aprile 20. "Estratto della perizia dell'ingegner Pietro Carraresi riguardante la 'finestra circolare' della facciata del Duomo. In proposito si veda F.ROTUNDO '96). I lavori furono eseguiti dal capomastro Piero

Ferroni,che utilizzò marmi delle cave di Montiano L'intervento consistette nella sostituzione di parti delle colonnine, delle cornici a dentelli e nel rifacimento del Cristo benedicente al centro, scolpito a bassorilievo.
 
Il ballatoio, col suo sviluppo secondo le linee di un trapezio che interessa lo spessore della parete della facciata, costituisce un unicum rispetto a quelli di altri edifici dell'epoca, in genere rettilinei. È stato in buona parte rifatto nell'Ottocento, ma sul disegno di fine secolo XIII, realizzato in corrispondenza dei lavori dell'alzato. Le parti decorative sono del '300, eseguite dall'ambiente artistico di Agostino di Giovanni e del figlio di questi, Giovanni d'Agostino, e non pochi dei capitelli originali delle colonnette sono stati conservati nel rifacimento.

 

I lanternini sui salienti laterali furono realizzati nel corso dei lavori nella cattedrale, iniziati il 1538 e conclusi poco dopo il 1540 dall’architetto senese Anton Maria Lari, allievo di Baldassarre Peruzzi, sconvolgendo, assieme ai piccoli obelischi situati nella estremità del fastigio, il disegno trecentesco della facciata.

 

L.FRANCHINA '96, pp.61-62: «La cornice esterna circonda (digradando dal basso all'alto e raccordandosi con fasce a mo’ di meridiano al coronamento finale, particolarmente accurato dal punto di vista plastico) la piccola cupola. Degli elementi a mensola raccordano il blocco-cupola alla sottostante trabeazione, che collega i capitelli delle lesene ed i conci di chiave degli archi che hanno una pura funzione decorativa. Infatti si tratta solo del ricordo del concio, che ha perduto ogni funzione statica. Gli altri conci non esistono, l'arco è un sottile segno grafico su di un settore del tamburo che diventa piattabanda: un ricordo dell'arco a sbarra senese risolto in puro gioco di superficie. Perfino le finestre non sono finestre. I vuoti sono pieni, il segno non comunica più, il significante resta senza significato, resta per puro gioco progettuale senza alcuna corrispondenza funzionale, ai limiti dell'assurdo: un lanternino che non serve a far luce. Ma ecco, le lesene vengono improvvisamente contraddette da un piccolo arricciolamento basamentale, troppo esile in realtà per costituire contrafforte. Tutto, in questi lanternini, è gioco di superficie, richiamo a funzioni non svolte, rivendicazione della forma per la forma. In questo possiamo vedere la particolare poetica manierista del Lari, che anche nella facciata dell'Orfanotrofio di Santa Marta gioca precisamente sull'effetto cromatico delle superfici, sui sottili segni d'ombra

lasciati da una luce cui si nega l'accesso con arcate e finestre cieche, con risalti sottili come lame e cornici ridotte ad una spartana essenzialità che fanno dell'ombra un immateriale elemento progettuale».

 

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